"La Maria Farrar", Sara Alzetta inscena l'infanticidio al Miela
“La Maria Farrar”, una commedia “politicamente scorretta” sull’infanticidio, inaugurerà il 6 febbraio il nuovo spazio del Teatro Miela, il “Ridottino” da 50 posti, fresco di restauro. Protagonista l’attrice triestina Sara Alzetta in un copione dell'autore palermitano Manlio Marinelli. Maria Farrar, personaggio a cui Bertolt Brecht ha dedicato una straziante poesia, è una giovane serva che rimane incinta in seguito a uno stupro, e dopo aver tentato l’aborto uccide il suo neonato, per poi venire a sua volta assassinata in carcere.
In questa commedia nera, Sara Alzetta interpreterà Maria e tutti i personaggi che le ruotano attorno, in una polifonia di voci che darà vita a un viaggio insospettabilmente comico e folle, fuori dal tempo e collegato ala realtà da un legame mutevole e simbolico. Così l’attrice racconta questa sfida teatrale.
Com’è il mondo di Maria Farrar?
È un mondo senza collocazione, una situazione di fantasia che attinge a molti spunti diversi. Inizia a Torino, si capisce che siamo tra meridionali, nella prima ondata migratoria degli anni 70. Maria appartiene a una classe subalterna, viene abbandonata dai genitori perché è la bruttezza fatta persona e finisce a fare le pulizie dentro a un convento. A questo punto diventa una vicenda dickensiana. Poi subisce un processo televisivo con opinionisti e psicologi e diventa contemporanea. Tutto è surrealtà e finzione ma alla fine si descrive qualcosa di reale, che si ripete nel tempo, una condizione di subalternità femminile.
Se Maria fosse stata presa in cura da un buon consultorio pediatrico, le cose sarebbero andate diversamente?
Assolutamente sì. È vittima di una condizione di ignoranza imposta, qualcosa che assomiglia alla situazione di molte donne musulmane. Una storia senza tempo: da sempre alla donna viene impedito di istruirsi ed emanciparsi perché l’istruzione cambia le cose, rende liberi e in grado di scegliere. E questo viene interdetto dai poteri forti, qui rappresentati da Suor Maurizio, “la suora più baffuta del convento”, che punisce con gusto perché spesso il potere significa solo la possibilità di infliggere sofferenza. Maria è una vittima, avrebbe grandi potenzialità, schietta e vitale oltre che tenerissima, sa per certo di non volere un figlio e non ha idea di che significhi riprodursi. Addirittura non capisce perché smette di avere le mestruazioni e sarà un’apparizione della Madonna a spiegarglielo, in una grottesca annunciazione.
I personaggi sono tanti, e ognuno di loro si esprime in un dialetto diverso. Lo stupratore, in particolare, è triestino. Un’altra scelta politicamente scorretta?
Semplicemente è il mio dialetto, quello che conosco meglio. Il personaggio è disgustoso: ha le unghie nere e un occhio di vetro, uno dei tanti elementi anacronistici perché si tratta di un non-luogo che simboleggia un’Italia frammentata in tanti dialetti. Ognuno di questi rappresenta un tipo antropologico: la Madonna è romagnola perché esprime esuberanza, il cane, servile, parla in veneto, il, poliziotto è meridionale come spesso accade. Non è una questione di giudizi o pregiudizi, è che ogni dialetto ha in sé una particolare “qualità energetica”.
È stato difficile trasformare un’infanticida in un ruolo comico?
È un tema molto forte ma è trattato con grande discrezione. In questa versione di Marinelli l’omicidio non è violento come nella poesia di Brecht, non abbiamo fatto un’operazione d’avanguardia con sangue e stupro nei dettagli. È una storia di sfortuna, di sottoproletariato, i personaggi sono puramente “sfigati”, non eroi negativi punk-rock. Per essere Maria sarò truccata in maniera orripilante, non una bruttezza estetizzante come quella di un Marilyn Manson perché non c’è riscatto estetico. Solo pura miseria umana.
"La Maria Farrar" andrà in scena lunedì 6 alle 21 con due repliche martedì 7 alle 16 e mercoledì 8 alle 19.