"Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Gassman al Rossetti
Nel gennaio 2017 ricorrerà il quarantesimo anniversario della chiusura del manicomio di “San Giovanni” di Trieste. La riforma di Franco Basaglia, le sue parole, tutte volte a illuminare l’importanza della libertà per ogni individuo, del sostegno – e non del rifiuto – da parte della società, assumono qui un senso del tutto particolare. Ed una sua riflessione come quella secondo cui «Un malato di mente entra in manicomio come una “persona”, per diventare una “cosa”. Mentre il malato è prima di tutto una persona e come tale va considerata e curata» oltre a gettare ombre sempre attuali sul tema dell’accudimento delle persone più fragili (i malati, i bambini, gli anziani), potrebbero essere un sottotitolo rivelatore per Qualcuno volò sul nido del cuculo, applaudito spettacolo con cui Alessandro Gassman indaga nuovamente su questi temi.
Grazie al romanzo di Ken Kesey del 1962 cui seguì un felice adattamento teatrale a Broadway, ma soprattutto il film-Premio Oscar interpretato da Jack Nicholson nel 1975, è molto noto il plot di Qualcuno volò sul nido del cuculo: Randle McMurphy si finge matto per evitare la prigione. In manicomio conosce la dolorosa routine di un gruppo di malati, fatta di coercizione, abusi fisici e morali, spersonalizzazione, terapie spesso violente… Egli non può adeguarsi e con il suo comportamento ribelle restituisce a quei malati un esempio di libertà, un anelito di dignità, ma contemporaneamente va incontro a un drammatico destino. Gassman porta questa storia vicino a noi, grazie all’originale adattamento di Maurizio de Giovanni: «Le Grandi Storie – dice lo scrittore – si riconoscono subito. (…) Raccontano, in maniera semplice e comprensibile, quello che tutti abbiamo in comune: sentimenti, passioni. Tuttavia, anche le Grandi Storie oltre agli elementi universali hanno bisogno di un tempo e di uno spazio. Devono essere vestite di quotidianità e di musica, di abiti e dialetto, di cibo e di mobili…» È questa linea che ha seguito, spostando l’azione nel 1982, in Italia, nell’Ospedale giudiziario psichiatrico di Aversa e vestendo le potenti emozioni della vicenda di toni dialettali e di fatti (la partita Italia-Germania, ad esempio, che i malati vorrebbero guardare opponendosi alla rigidità di Suor Lucia) che ci appartengono. Su questo tessuto Gassman ha costruito una regia forte e assieme delicata, capace di toccare l’anima di ogni spettatore, orchestrando come sempre un affascinante assieme di linguaggi – dalla musica blues, alle videografie, alla eloquente scenografia – e guidando di un gruppo d’attori assai lodato dalla critica. Fra tutti Daniele Russo, un McMurphy trasformato in Dario Danise, ma fedelissimo al personaggio originale nella spavalda, disperata e commovente lotta per la libertà. È l’emblema – come sostiene il regista – di quella lezione d’impegno civile che è il testo «straordinaria metafora sul rapporto fra individuo e Potere costituito, sui meccanismi repressivi della società sul condizionamento dell’uomo da parte di altri uomini».