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Vita da climber, intervista al triestino Gabriele Gorobey

Classe 1986, Gorobey è uno dei climber più forti in regione. Dopo il traguardo del 9a lavorato (conquistato ben due volte) punta verso altre mete. Ecco la sua intervista

Una vita da 9a: intervista al climber Gabriele Gorobay Ci deve essere una luce diversa negli occhi di coloro che vivono la loro vita tra viaggi e avventure in verticale, soprattutto perché i climber, ad ogni scalata, devono fare i conti con il vuoto e il controllo emotivo della paura. E' così che, il gioco di mani, piedi e testa, si intrecciano e diventano fondamentali non solo per raggiungere l'obiettivo, ma anche per sviluppare il carattere, la consapevolezza dell’individuo e l’equilibrio. Lo sa bene il triestino Gabriele Gorobey, uno dei climber più forti in regione. Classe 1986, Gorobey ha iniziato nel 2003, quando è stato notato da Luciano Frezzolino. Da quel giorno l'arrampicata è diventata la sua vita.

Sei un arrampicatore da "9a" lavorato, un traguardo non da poco. Cosa provi quando raggiungi il tuo obiettivo?
Credo sia un buon risultato, ma non un traguardo: sono ancora molti gli obiettivi da raggiungere. Esplorare e superare i propri limiti richiede tanto tempo, dedizione e costanza. Lo sport viene sempre raccontato attraverso i risultati finali, ma la strada per arrivarci è ben più lunga e faticosa e, alle volte, anche frustrante. Ricordo bene la mia prima salita di 9a. Ero così desideroso di arrivare alla fine che, ad un certo punto, il mio corpo si è irrigidito così tanto da farmi perdere la concentrazione: sprecavo energie e continuavo a cadere. Così, abbandonate le aspettative, sono riuscito a scalare in maniera fluida e sicura, con naturalezza. Raggiungere la cima è stata una grande gioia, una felicità profonda che mi ha permesso in seguito di superare molte altre sfide.

L'arrampicata del cuore?
Non ce n'è una in particolare. In questi anni ho fatto varie scalate, dalle vie lunghe sportive al bouldering, e ognuna di esse mi ha dato soddisfazioni sportive e personali. L'arrampicata mi ha permesso di credere in me stesso anche quando avevo paura, a respirare piano e rimanere concentrato per perseguire un obiettivo.

Qualche anno fa sei stato uno dei protagonisti del documentario "Never the Same", presentato proprio a Trieste. Racconti la tua avventura in Madagascar  e quei 700 metri di granito. Cosa hai provato di fronte alla natura?
E' stata un esperienza unica che porterò sempre con me. Inizialmente ho provato inadeguatezza e un po' di paura. In quelle situazioni è facile sentirsi piccoli. Non devi osare più di quanto ti sia concesso: solo così, passo dopo passo, riuscirai nell'impresa. Generalmente ho sempre un pò di ansia il giorno che precede una scalata, ma poi, non appena inizio a scalare, trovo il mio ordine, la concentrazione e la fiducia in me stesso.

Parlaci delle tue giornate triestine. Dove ti alleni? 
Le mie giornate sono abbastanza frenetiche e mai uguali. Grazie all'arrampicata sono diventato un libero pensatore e un lavoratore autonomo. Faccio lavori in corda, quindi il mio tempo spesso oscilla tra fatica e imbragature. Mi alleno nella palestra del mio amico sloveno Luka Fonda, a Koper. E' un posto eccezionale e davvero all'avanguardia.

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