"Cinquanta sfumature di nero e sfruttamento: la verità sulla ristorazione in crisi"
A parlare è un ristoratore triestino che denuncia la mancanza di personale nelle sale e nelle cucine spiegando come e perché siamo arrivati a questo punto. Un politicamente scorretto su come, negli anni, il settore sia finito in un abisso di mala gestione causata non solo dallo Stato ma anche dagli stessi imprenditori
Pagamenti e incassi in nero, pandemia, condizioni di lavoro e reddito di cittadinanza. Sono queste alcune delle cause che hanno innescato la crisi della ricerca del personale nel mondo della ristorazione. Un settore che nelle ultime settimane è stato sotto la lente di ingrandimento in tutta Italia, Trieste compresa, a causa della difficoltà di reperire camerieri e cuochi. Un ristoratore triestino, che ha preferito restare nell'anonimato, ha deciso di dire la sua senza mezzi termini sulla base della propria esperienza.
Com'è cambiata la ricerca del personale dopo il Covid?
Da parte mia, in oltre dieci anni di attività, non è cambiato nulla. Utilizzo la stessa formula, le stesse modalità e offro sempre un contratto regolare. Sono tra le eccezioni dato che, secondo la mia esperienza, il 50 per cento della ristorazione paga in nero. In alcune realtà triestine la percentuale della forza lavoro irregolare può arrivare anche al 70 per cento. Ciò che è cambiato è la risposta agli annunci. Dopo la pandemia è calata moltissimo. Rispetto a qualche anno fa, ricevo un terzo delle candidature. Sono soprattutto persone straniere che molto spesso parlano male l'italiano, quindi non idonee a ricoprire il ruolo. Oppure candidati con pochi requisiti o senza esperienza. Questo dimostra che chi è già nella ristorazione, non sta più cercando lavoro.
Reddito di cittadinanza, Neet e pandemia
Secondo te cos'è cambiato?
Sfatiamo il mito del reddito di cittadinanza. Secondo i dati dell'Inps, a febbraio di quest'anno i triestini che lo percepivano erano 3300 persone, su circa 200 mila abitanti e circa 130 mila di popolazione attiva. Non sono tutti nella ristorazione. Se anche ce ne fossero, potrebbero essere - esagerando - mille, un numero che non può cambiare il mercato della ristorazione.
La mia risposta è che le persone, durante la pandemia, hanno scoperto che possono avere una vita privata e che esistono lavori in altri settori, dove non si lavora 60 ore a settimana. E che in altri campi non si viene assunti con 20 ore di contratto e le altre 20 in nero, con tutto ciò che ne consegue, dalla disoccupazione alla malattia. Inoltre, anche il continuo apri e chiudi dei locali causato dal Covid, ha fatto sì che chi lavorava in questo comparto abbia scelto di puntare ad altro, magari facendo corsi e riqualificandosi. Direi che c'è un mix di fattori: una fetta molto piccola di potenziali candidati è legata al reddito di cittadinanza, un'altra ha smesso di cercare lavoro (i Neet, Not in education, employment or training) e la parte restante ha deciso di cambiare settore.
Quaranta con il resto di venti
Perché la ristorazione non attira più?
E' un mestiere che, per come è stato impostato in Italia, puoi fare fino ad una certa età. Non c'è spazio per la tua vita privata. Prendiamo per esempio le ore settimanali previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Diciamo che sono 40. Se le spalmiamo su un orario di apertura di un locale aperto sei giorni su sette, che prevede pranzo e cena, si esauriscono già servendo i pasti e prendendo le ordinazioni. E tutta la preparazione quando la fai? Ecco le famose altre 20 ore in più. E' chiaro che, dal punto di vista della remunerazione, nessun imprenditore può pagare 20 ore di straordinario. E' una follia. Quindi o trovi quello più illuminato che ti offre un forfait o trovi quello che ti dice che te li dà in nero. Un'altra soluzione potrebbe essere quella di assumere un full time e un part time vicino, ma ci vuole molta organizzazione.
"Me ne vado, troppe tasse"
Questione tasse e cuneo fiscale: quali soluzioni?
"In Italia la tassazione è altissima, me ne vado". Sfatiamo un altro mito: nel nostro Paese, la tassazione è più o meno quella degli altri Stati europei (parlo di Francia, Germania e Spagna). Diverso è il cuneo fiscale, ovvero quanto costa un dipendente e quanto quest'ultimo mette in tasca. Questo sì, è più consistente rispetto agli altri Stati. Sulle soluzioni non saprei, non è il mio mestiere. Quello che so è che, quando sento il ristoratore dire che è obbligato a "fare nero" perché altrimenti "non sta in piedi", penso che nessuno lo abbia costretto ad aprire un'attività. Prima di fare il grande passo, avrà pur fatto i suoi conti, un business plan, avrà visto quanto gli costa il personale e qual è la sua incidenza sul fatturato previsto. Se ritieni di non stare in piedi e che la tua unica soluzione sia quella di evadere le tasse non pagando parte delle ore del personale in maniera irregolare, hai sbagliato mestiere. Se non sei capace di seguire le regole del tuo Paese, non apri un'attività.
Cinquanta sfumature di nero
Il personale si paga in nero per smaltire il nero in incasso, perché oltre a quello in uscita c'è ovviamente anche quello in entrata. Farlo con i fornitori è molto più difficile: ci sono di mezzo la merce, la tracciabilità e l'Azienda sanitaria. L'unica eccezione è il vino, ma lo devi acquistare direttamente nelle cantine. D'altronde cosa puoi fare con quei soldi? Non puoi più comprare l'auto, la casa o il gioiello per la moglie. Li usi per pagare i dipendenti, creando un vero e proprio circolo. E' un cane che si mangia la coda. Se da oggi la ristorazione iniziasse ad emettere scontrini per tutto, in un anno chiuderebbe il tra il 30 e il 40 per cento dei locali.
Quanta responsabilità ha il dipendente?
Il dipendente accetta le condizioni. E' anche vero che a qualcuno il nero sta bene, o magari non ci pensa. Ovviamente è sempre la parte debole in fase di colloquio, perché ha bisogno di lavorare. Tuttavia, credo che siamo arrivati a questo punto proprio perché adesso i potenziali candidati, quelli con esperienza nel settore, hanno iniziato a dire "no". Rimane l'incognita di cosa facciano.