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La storia dimenticata del campo profughi delle Noghere

Lunedì 18 febbraio presso la sala Millo di Muggia verrà presentato il libro "Il piccolo esodo dei muggesani e il campo profughi delle Noghere" di Francesco Fait. Una buona occasione per venire a conoscenza di una storia pressoché sconosciuta ai più. Inizio alle 18

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

"Nell’ottobre del 1954, a seguito del Memorandum di Londra, una metà circa del Comune di Muggia venne ceduta alla Jugoslavia generando lo spostamento forzoso di circa 3.000 persone. Fu l’ultimo e il meno ingente degli esodi dei giuliano dalmati, un piccolo esodo ma non per questo meno interessante, che determinò tra le altre conseguenze la nascita del campo profughi delle Noghere. Qui convissero per lustri questi muggesani, per lo più operai dell’industria meccanica rimasti ostinatamente comunisti, con istriani credenti e prevalentemente democristiani.

Il piccolo esodo dei muggesani e il campo profughi delle Noghere è il frutto di una ricerca che si basa su fonti di archivio e su interviste a persone che hanno vissuto i fatti narrati ed è corredato da 97 bellissime fotografie provenienti per la maggior parte dalla Fototeca dei Civici musei di storia ed arte di Trieste."

Il volume

Il libro di Francesco Fait racconta due vicende collegate: il più piccolo degli esodi che hanno interessato l’Europa nel secolo breve, quello dei muggesani, e la vicenda del campo profughi delle Noghere, progettato per ospitare i suoi protagonisti. Un esodo trascurabile, quasi insignificante, che ha interessato meno di tremila persone: un’inezia rispetto ai cinquanta milioni di vittime di deportazioni o trasferimenti forzati, forzosi o volontari di prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Trascurabile, quasi insignificante, un’inezia; beninteso, rispetto ai grandi numeri appena citati e solo per chi è un osservatore dei fatti della Storia. Per chi lo ha subìto e vissuto, viceversa, un colpo durissimo.

Per questi muggesani l’irruzione della Storia si manifestò all’improvviso, nel mese di ottobre dell’anno 1954, sotto le sembianze di militari americani, inglesi e jugoslavi, genieri e tecnici, accinti a consultare mappe, prendere misure e piantare sul terreno paletti di colore giallo per tracciare il nuovo confine destinato a separare il Comune di Muggia dalle sue frazioni dei Monti per assegnarle definitivamente alla Jugoslavia. Un confine che divise terreni e poderi e talvolta persino case, che restarono per metà al di qua e per metà al di là di quella linea innaturale e capricciosa. E le fotografie che si trovano nel volume – bellissime fotografie, fotografie che si possono senza esagerazione dire cinematografiche – ci raccontano di piccole folle di gente con il fiato sospeso per conoscere il destino proprio e dei propri averi e delle loro reazioni di fronte alla sorte quando questa si rivelava sfavorevole. Reazioni molto spesso di disperazione e impotenza, come nel caso della donna con la faccia ghermita dalla sua stessa mano, bellissima mano di contadina; ma talvolta anche di rabbia, altrettanto impotente, come nel caso dell’uomo, anch’egli un contadino, trattenuto a stento dagli agenti della polizia civile: quasi un moderno ma pallido e inconcludente erede di Antigone, figura della tragedia classica che ci ha insegnato che esiste un diritto naturale alla ribellione se il fine è sfuggire ad una legge empia e scellerata.

A volte gli avvenimenti ricostruiti da Francesco Fait nel suo libro virano dalla tragedia alla farsa, senza però che ciò depotenzi la cupa atmosfera di dramma ma, al contrario, contribuendo a rafforzarla. È il caso della vicenda della famiglia Lenardon, che ebbe terra e casa divise dal confine, e del loro maiale, che venne sequestrato dalle autorità jugoslave in quanto la stalla insisteva in territorio passato alla Jugoslavia. Maiale che le autorità medesime non volevano restituire nemmeno dopo che, a seguito di apposita vertenza internazionale, il confine venne rettificato e terra e casa e stalla (e maiale) dei Lenardon vennero riassegnati all’Italia.

Il campo profughi delle Noghere

Nella seconda parte di questo piccolo e prezioso libro (il più breve ma il migliore che io abbia letto sull’esodo) viene raccontata la storia del campo profughi delle Noghere, anch’esso muggesano, che rappresenta un caso unico rispetto alle decine e decine di strutture simili (campi profughi appositamente allestititi o caserme o alberghi temporaneamente sequestrati) che la Repubblica italiana predispose per offrire una prima risposta agli esuli nella provincia di Trieste e in tutto il Paese. Un campo che era diviso a metà da un altro confine, immaginario ma affatto privo di implicazioni, che separava la metà dei muggesani venuti via dai Monti, prevalentemente operai atei e comunisti, dalla metà degli istriani, nella stragrande maggioranza dei casi credenti e democristiani. E insieme a questi italiani che avevano scelto di restare in seno alla propria madrepatria, nel campo profughi delle Noghere vissero anche tanti sloveni, provenienti sia dal muggesano che dall’Istria. Un vero e proprio microcosmo, che riproduceva in formato ridotto le suddivisioni politiche e nazionali che, allora e per tanti anni ancora, separavano e avrebbero separato l’Italia e l’aldilà e l’aldiquà del cosiddetto confine orientale. Un mondo di divisioni quindi, ma anche di condivisioni di quella vita difficile e a tratti cruda, ma eticamente e profondamente sociale, conviviale e genuina. Che nel caso di ragazze e ragazzi di allora, i cui ricordi sono stati raccolti dall’autore che li ha trasformati in fonti storiografiche orali per mezzo di venti interviste, fu un mondo di libertà di vita ed azione, seppure in mezzo a difficoltà materiali spesso veramente molto dure, e di amicizia e fratellanza con i coetanei, seppure a volte aspre e non prive di conflittualità. Un passato verso cui guardare, a distanza di decenni, con occhi velati dalla nostalgia del tempo che fu e verso il quale provare, in certi casi, quella sorta di gratitudine che a volte nella vita si scopre di sentire per episodi o fasi della propria vita difficili, ma profondamente e dolorosamente forgianti e formative.

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