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La recensione / Barriera Vecchia - Città Vecchia / Piazza Giuseppe Verdi

Dopo quasi mezzo secolo, trionfano al Verdi I Capuleti e i Montecchi di Bellini

L'allestimento brillante con un cast ammirevole, applaudito molte volte a scena aperta e salutato con ovazioni finali

Un noto musicologo, ammirando l'inventiva e la poetica della melodia belliniana, ha scritto che il compositore catanese non brillasse nella strumentazione essendo incline a trasformare “l'orchestra in una grande chitarra d'accompagnamento”. Una chitarra, però, che usata opportunamente, offre un sostegno eccezionale ai cantanti. In questo senso – come in tutti gli altri, del resto – il maestro Enrico Calesso è la figura perfetta sul podio del Teatro Verdi, il quale dopo quasi mezzo secolo ripropone I Capuleti e i Montecchi. Il troppo lungo oblio si fa perdonare abbandonandosi all'ottimo allestimento fondato sulle scelte impeccabili su tutti i piani, prodotto dall'Arena di Verona in collaborazione con la Fenice di Venezia e la Greek National Opera.

Il gesto del giovane direttore è squisitamente delicato, ma non di meno suggestivo, la sua capacità di articolare il fraseggio ed estrapolare vari aspetti della poetica insita nella scrittura sono esemplari, uguagliati dalla sua comunicazione con la scena ed il golfo mistico. L'orchestra lo asseconda con facilità ed una percepibile gioia in cui si distinguono gli assolo. La bacchetta di Calesso è sicura, precisa, tuttavia sensibile ed attenta nei riguardi degli interpreti. E questi non meritano che gli apprezzamenti superlativi, espressi già dal pubblico attraverso gli innumerevoli applausi a scena aperta.

I protagonisti danno una vera e propria lezione di belcanto; in primis, anche per la complessità e importanza dei ruoli, Caterina Sala nei panni di Giulietta e Laura Verrecchia in quelli di Romeo. Con grande eleganza rispettano il valore semantico attribuito da Bellini ad ogni nota e pausa, senza alcun sforzo cambiano i registri vocali ed interpretativi, elargiscono le fioriture come parte fisiologica della partitura, superano anche le più aspre difficoltà con naturalezza, fluidità e fiato interminabile, senza fastidiosi trucchi  che facilitano gli abbellimenti o gli acuti immancabilmente sfavillanti, con gusto e grazia schivano le enfasi nell'espressività emotiva, tanto incisiva e veritiera quanto equilibrata. Per entrambe le artiste si tratta di un trionfo personale.

Entusiasma anche Marco Ciaponi, un Tebaldo di classe pregiata. Il timbro potrebbe anche essere soggetto ai gusti individuali, ma chi scrive l'ha trovato di una bellezza ampia ed avvolgente. A causa del libretto di Felice Romani, il suo è il ruolo meno attendibile dell'opera, eppure da bravissimo belcantista ed interprete sincero, il tenore riesce a renderlo credibile e commuovente. Tecnicamente inappuntabile, Ciaponi sfoggia altrettanto una raffinata musicalità. Ottimo Emanuele Cordaro nel ruolo di Lorenzo, mentre Paolo Battaglia è un valido Capellio, seppure meno imponente di quanto sarebbe auspicabile. Nonostante qualche titubanza iniziale, si riprende presto e convince il coro maschile, raggiunto da quello femminile – preparati da Paolo Longo - in un'unica scena, teatralmente tra le più incisive dello spettacolo.

Fausto, ben ponderato, di notevole levatura estetica, funzionale e altamente logico, l'impatto visivo  è la cornice degna del quadro musicale, grazie all'ispirato e omogeneo quartetto composto da Arnaud Bernard (regia), Alessandro Camera (scene), Carla Ricotti (costumi) e Paolo Mazzon (luci). Il vivido estro personale di ciascuno di loro si integra empaticamente in un fascinoso prodotto, compatto, denso di significati che non solo illustrano la vicenda, ma vanno ben oltre: trasformano un esile libretto in un dramma avvincente, rendendo il lavoro dei cantanti riguardante l'autenticità dei personaggi molto più facile. L'idea concettuale, interpretabile sui vari livelli che spuntano l'un dall'altro per compenetrarsi senza cuciture, la firma risolutamente Bernard, trovando la preziosa collaborazione negli altri tre, tra cui una nomina speciale va a Paolo Mazzon, già per il fatto che la cosa più rara al Verdi triestino è una si indovinata regia luci.

   

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