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Teatro

"Green Day's American Idiot", la favola punk porta i giovani al Rossetti

Lo spettacolo di Marco Iacomelli vince una sfida non facile: coniugare la popolarità del musical con un genere che si fonda sullo sfregio e lo sberleffo

Un pubblico numeroso e giovane ha accolto con entusiasmo “Green Day’s American Idiot” al Rossetti la sera del 16 novembre (con un'unica replica il 17). Il musical, ispirato all’omonimo concept album della punk-rock band di Billie Joe Armstrong, è stato un successo con tanto di Grammy e Tony Awards a Londra e Broadway. Il Politeama Rossetti ne ha presentato la terza produzione al mondo, tutta italiana, con una giovanissima compagnia formata dai talenti delle più grandi scuole di musical del paese, scoperti e preparati dal regista Marco Iacomelli.

Un canto sgarbato e potente contro i poteri forti degli Stati Uniti nell’epoca Bush, eppure nelle proiezioni di scena c’è un breve "cameo" di Donald Trump quale apparizione dal futuro o spunto di riflessione. E dalle zone d’ombra dimenticate dai governi sorgono i tre eroi punk di questa storia, ragazzi di periferia che si rifiutano di essere “americani medi” e decidono di partire alla volta della grande città. Si sa che il punk garantisce grandi emozioni ma non è nato per dare soluzioni: i tre inizieranno un viaggio di formazione senza avere un piano preciso, e per sfuggire ai falsi valori del consumismo finiranno dritti nelle reali trappole della vita. Chi partirà soldato al macello in Medio Oriente, chi sarà padre contro la sua volontà, e chi sarà invece soggiogato da un tiranno ben peggiore di Bush: il suo doppio oscuro che lo spingerà nel gorgo della droga. Una favola punk che, in quanto tale, non confeziona la morale ma denuncia e mette in guardia con un non-finale a sorpresa.

Lo spettacolo di Iacomelli vince una sfida non facile, che ricalca la carriera dei Green Day: coniugare la popolarità del musical con un genere che si basa sullo sfregio e lo sberleffo. Da qui le scene di Gabriele Moreschi con le illustrazioni di Rosemary Amodeo basate sull’arte di Basquiat, che sanno di pittura rupestre, in contrasto con le proiezioni televisive e le insegne luminose. Uno spettacolo che inscena l’eroina, il sesso e l’agonia senza la patina angelicata di “Rent”, ma con picchi di crudezza che sfiorano l’horror.

Coerenti con l’insieme anche le coreografie di Michael Cothren Peña (che ha curato le cerimonie delle Olimpiadi di Baku 2017), sconclusionate ad arte in un insieme ordinato. Non mancano scene funamboliche, come la costruzione in tempo reale di un autobus funzionante nel brano “Holiday” e la scena di sesso sovrapposta all’azione di guerra. Acrobatiche soluzioni che mettono a dura prova i giovanissimi interpreti, con voci sorprendenti nelle scene statiche, ma non sempre sicure in quelle dinamiche. Si tratta comunque del genere musicale “sporco” e imperfetto per eccellenza, dove l’errore e la specificità stilistica si confondono in un terreno minato per chi è uscito (di recente) dall’accademismo della scuola di musical.

Spicca tra le voci quella di Luca Gaudiano nella parte del giovane padre Will, ma lo superano in intensità interpretativa i protagonisti Ivan Iannacci (Johnny) e Laura Andriani (Whatshername). A loro due, rispettivamente, va il merito delle due "highlights": “Boulevard of broken dreams” e “21 guns”, mentre il terzo protagonista, Renato Crudo, ha emozionato tutti nel ruolo più sofferente e scioccante, quello del giovane soldato. Brave anche le altre due donne, Angela Pascucci (Heather) e Giulia Dascoli (Extraordinary Girl). La parte forse più impegnativa, quella dell’alter ego distruttivo, è toccata al rocker caratterista Mario Ortiz, che dopo un inizio sottotono è riuscito a tirar fuori il carisma richiesto dal ruolo.

Un grande "plus" la band dal vivo, composta da Riccardo Di Paola (direzione e tastiere), Roberta Raschellà (chitarre), Orazio Nicoletti (basso), e Marco Parenti (batteria), che hanno eseguito i brani riarrangiati da Tom Kitt. Interessanti i costumi e il trucco di Maria Carla Ricotti, un mix tra la moda attuale, i mercatini di Camden Town e il punk anni 90.

Questa edizione italiana, per fortuna, non traduce i brani musicali ma li scandisce con dei recitativi che, a tratti, sono didascalici e non valorizzano tutti i passaggi della ricca trama. Una storia con tre protagonisti compressa in un’ora e quaranta, ben orchestrata con la simultaneità di scene e controscene ma che fa comunque pesare la mancanza di quei dieci minuti in più.  

Pesano anche i sogni infranti lungo il viale delle nuove generazioni, americane o italiane che siano, un peso che ci viene consegnato senza sconti al calare del sipario. E insieme all’adrenalina del post-concerto ci si porta a casa una vaga apprensione, e non solo per i giovani americani.

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