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Referendum costituzionale, già sei i comitati del "No che serve" a Trieste

Agosto di impegno civico per “il NO che serve”. Cinque nuovi comitati per il no al referendum costituzionale sono stati aperti negli ultimi giorni nella provincia di Trieste. I nuovi comitati si vanno ad aggiungere al primo che era già stato aperto nel corso dell’estate.

Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di TriestePrima

Agosto di impegno civico per "il NO che serve". Cinque nuovi comitati per il no al referendum costituzionale sono stati aperti negli ultimi giorni nella provincia di Trieste. I nuovi comitati si vanno ad aggiungere al primo che era già stato aperto nel corso dell'estate.

I comitati hanno lo scopo di promuovere il dibattito e le iniziative a sostegno del no alla riforma costituzionale approvata dalle Camere nella XVII Legislatura e alla nuova legge elettorale per evidenziarne l'inadeguatezza, gli errori di metodo e le profonde distorsioni che potrebbero portare ad una democrazia fortemente indebolita.

Abbiamo deciso di dar vita a questi comitati per il no perché vogliamo una riforma vera. Perché non crediamo che in ambito costituzionale una riforma sbagliata sia meglio di niente. Perché oltre a una riforma sbagliata e oltre al niente c'è il nostro no costruttivo: un impegno a cambiare la Costituzione in meglio, mettendo al bando la prepotenza. Abbiamo dato vita a questi comitati anche perché crediamo nell'impegno civico a favore della propria comunità: a livello locale così come a livello nazionale. Riteniamo che solo da una iniezione di autentico civismo possa rinascere la buona politica.

Quando si parla delle regole fondamentali sulle quali si regge una comunità nazionale è necessario dimostrare capacità d'ascolto, disponibilità al confronto, apertura verso le idee dell'altro. Renzi e il suo governo, invece, si sono arroccati nel loro sistema di potere, lacerando il Paese con un inaccettabile prendere o lasciare.

Una via decisionista, con interventi maldestri e unilaterali, era già stata sperimentata nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione che incideva sul rapporto Stato-Regioni. Anche in quell'occasione si privilegiò l'effetto propagandistico sulla visione sistemica: senza condivisione tra le principali forze politiche e senza un vero mandato popolare quella riforma ha indebolito ancora di più il rapporto tra cittadini e istituzioni ed in poco tempo ci si è trovati a fare i conti con i danni istituzionali e soprattutto economici provocati al Paese.
Anche allora si disse che una riforma sarebbe stata migliore di nessuna riforma. Quindici anni dopo ci si è pentiti amaramente di quell'affermazione. Non vogliamo che la storia si ripeta e le incongruenze della legge Renzi-Boschi fanno prevedere che ciò accadrà.

Modificare la base elettorale della Presidenza della Repubblica senza definire meglio questa delicata e influente carica istituzionale, lasciando che ad esprimerla possa essere il solo partito di maggioranza con al più un limitato apporto esterno, crea nuovo caos fra i poteri.

Prevedere un numero potenzialmente abnorme di procedimenti legislativi alternativi, in alcuni casi con un preoccupante livello di indefinitezza, rischia di aggrovigliare ciò che si intendeva semplificare e far rientrare dalla finestra il contenzioso che ci si illude di cacciare dalla porta.

Pensare a un Senato in cui siano centrali le Regioni, senza peraltro definire in che modo si realizza questa rappresentanza, mentre al tempo stesso delle Regioni è depotenziato il significato a prescindere da una seria riflessione sui motivi della loro attuale inefficacia, appare schizofrenico.

L'accoppiamento di una legge elettorale come l'Italicum con una riforma costituzionale che vorrebbe risolvere il problema del buon governo con soluzioni superficiali e pasticciate, pone il problema sia della rappresentatività sia dei limiti e dei contrappesi al potere di chi è chiamato a governare.
Pagare questo prezzo, peraltro, non servirebbe nemmeno a favorire una tendenza verso un fisiologico sistema di alternanza: è anzi lecito attendersi che un partito poco rappresentativo, ma con il potere di governo e circondato da opposizioni frammentate sarà il protagonista di fenomeni di trasformismo analoghi a quelli che stanno segnando questa legislatura.

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