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"Mi chiamavano Tatanka", ecco la biografia di Dario Hubner, bomber operaio da Zindis

Bomber vero da 348 gol in carriera, il centravanti muggesano è stato l'unico, assieme ad Igor Protti, a vincere il titolo di capocannoniere in serie A, B e C1. Il racconto nell'intervista raccolta dai colleghi di Citysport

A due passi, o meglio, a un doppio passo dal mare. E' qui che Dario Hubner ha imparato i fondamentali del calcio, di quel gioco che negli anni 90-2000 ha reso l'Italia il centro del mondo sportivo e non. Chi lo ha visto giocare ai più alti livelli scommetterebbe che quei movimenti erano gli stessi per smarcarsi dagli avversari a Zindis e chi ha giocato con lui su quei campi improvvisati di Muggia, avrebbe pronosticato di trovarsi di fronte a un bomber da 348 gol in carriera, l'unico, assieme ad Igor Protti, a vantare il titolo di capocannoniere in tre categorie: in serie C1 (stagione 1991-1992 con la maglia del Fano), B (nel 1996 a Cesena) e A (con il Piacenza nel 2002).

Come passa la quarantena un bomber come Dario Hübner?

Vivo a Passarera da parecchi anni e tra Crema, Milano, Bergamo e Codogno è stata dura. Siamo proprio nell’epicentro del virus e per diverse settimane il suono delle ambulanze è stato incessante. Inoltre sono in lockdown dal 22 febbraio perché al termine di un torneo a Milano con dei ragazzi disabili che alleno è stato rilevato un caso di positività in una squadra avversaria e ci hanno preventivamente messo in quarantena... son partito prima! Ora siamo fermi, il campionato chiaramente è stato sospeso e ricominceremo con la prossima stagione, però in questo momento giustamente bisogna stare attenti a non far ripartire la pandemia.

Il libro si apre con una grande parentesi sulla tua adolescenza a Muggia, tra un campetto e l’altro, e nel tuo CV c’è un’esperienza da fabbro...

Sono sempre stato un ragazzo semplice, mio papà faceva l’operaio in cantiere e mia mamma era casalinga: eravamo una famiglia tranquilla che dava importanza alle piccole cose. Di certo tante cose non ce le potevamo permettere ma ci bastava poco per essere felici. All’epoca erano sufficienti un pallone, un campetto o un parcheggio senza macchine e si giocava per intere giornate. Su quei terreni, non proprio inglesi, ho perso migliaia di palloni e altrettanti ne ho riconquistati, controllati, protetti. In quegli anni ho imparato il sacrificio e prima di diventare un professionista ho fatto il fabbro rimboccandomi sempre le maniche. Per questo, anche per questo, sono sempre rimasto umile e non mi sono mai considerato superiore a nessuno. Ho avuto la fortuna di fare il calciatore ma sono rimasto identico a tutte le altre persone, penso ai miei amici di borgo Zindis, pittori, panettieri, vetrai: loro facevano il loro mestiere, io il mio senza mai pensare di essere un idolo solo perché ho giocato in Serie A. In tanti mi riconoscono questo, ed è un grande motivo di orgoglio.

Sei entrato nell’immaginario collettivo come il calciatore operario, tanto che Calcutta ti ha dedicato una canzone.

Premetto che appartengo ad un’altra generazione di musica, sai, Renato Zero, Baglioni, Queen... appena sentita la canzone di Calcutta non ci ho capito molto e non sapevo come prenderla: se esserne compiaciuto o meno, così ho chiesto aiuto ai miei figli, per parafrasarla fino a quando mi hanno rassicurato che parlava bene di me, del fatto che ho sempre messo la famiglia al primo posto e che non mi sono mai montato la testa. Ho avuto bisogno di ascoltarla più e più volte ma alla fine l’ho capita!

Del tuo rapporto con le sigarette e qualche grappino se ne sono dette di ogni colore, ma per te il fumo non è mai stato un tabù.

Ah, mica ero l'unico a fumare a quei tempi! Stesso discorso per il grappino, di certo non era una concessione di ogni giorno, perché quando si usciva al ristorante assieme agli amici era una cosa che ci e mi piaceva. Ho sempre fatto le cose senza nascondermi, non ho mai nascosto il fatto di fumare e non ho mai avuto problemi a dirlo: a trent'anni non mi dovevo mica nascondere! Mi ricordo che appena arrivato a Pieve di Soligo al ritiro con la Pievigina, la prima domanda di mister D'Alessi fu: chi fuma? Mister, io fumo, risposi. E gliel'ho detto subito, piuttosto che farmi beccare e passare per bugiardo. Io sono così, limpido e sincero.

Nella tua biografia racconti che veder giocare a calcio undici amici non è la stessa cosa che farlo con undici compagni di squadra; oggi forse prevale la seconda...

Un tempo eravamo undici operai a servizio dell’industria-squadra, mentre oggi ci sono undici industrie e nessun operaio; io ho giocato in un calcio diverso, molti presidenti sono stati per me come dei secondi papà. Quando indossavamo quelle maglie ci mettevamo il cuore perché sapevamo di giocare per quelle città; ti sentivi ambasciatore e senza dubbio parte di quella grande famiglia. Io dico sempre che in gruppo eravamo 25 amici che giocavano con la maglia uguale. Un amico che ti vede in difficoltà è pronto a sacrificarsi per te anche a scapito di perdere la propria marcatura, lo fa lo stesso. Essere amico o essere compagno è molto diverso e alle volte diverge. Ora? Vedo troppe personalità, tante volte ognuno pensa principalmente al proprio orticello mentre una volta la squadra contava molto di più del singolo.

Cos’altro è cambiato nel calcio rispetto a trent’anni fa?

Si è perso un po’ quel romanticismo dello sport allo stato istintivo, puro e libero da schede, schemi, analisi tattiche prima dopo e durante il match. Una volta il centrocampista era contento se marcava bene, adesso per ritenersi soddisfatto deve marcare bene, avere un buon numero di passaggi recuperati, dei buoni indici di quelli andati a buon fine, un’adeguata percentuale di cross utili... troppe analisi! Un tempo guardavi le tattiche degli avversari per dieci minuti e poi li affrontavi, oggi si inizia una partita diversi giorni prima del fischio di inizio. Il match analyst non esisteva, o meglio, quello che serviva sapere era impresso sul tabellone. Tutte queste novità hanno cambiato e complicato il gioco del calcio e ora chi le spara più grosse è visto come uno scienziato, mentre per me è lo sport più semplice che ci sia.

A cominciare dalle scuole calcio.

Io scendevo ogni giorno in cortile con i miei amici di borgo Zindis e non c’erano selezioni in base all’età: chi c’era, c’era e via 5 contro 5 e poi ti trovavi contro quello di 14, 10, 8 anni. Si giocava tutti insieme e dovevi proteggere la palla anche se eri piccolo: o diventavi “cattivo” o te la rubavano sempre. E’ automatico che la strada ti insegni questa cosa qua. Ora arrivi nelle scuole calcio e ti danno 5 tipi di casacche, esercizi con le mani, tecnica da fermo, tecnica in movimento ma poi quando i ragazzini devono saltare di testa saltano come chiodi senza proteggere la palla e quando devono difendere, spesso e volentieri difendono al contrario, è un po’ diverso.

Hai esordito a San Siro, in coincidenza con la prima partita di Ronaldo all’Inter, e lo hai fatto con un gol che se fosse un quadro avrebbe il suo posto in un museo. In quel gol c’è riscatto, reattività, protezione, potenza, fisico, istinto. C’è tutto Dario Hubner: cosa hai pensato in quel momento?

Guarda, ho avuto una grande emozione nel prepartita, devo essere sincero, ricordo la soddisfazione del momento in cui siamo entrati in campo per controllare le condizioni del terreno di gioco: ero abituato ai ventimila spettatori di Cesena e trovarsi al centro di uno stadio che ne ospita ottantamila è stata tutta un’altra cosa. Mi giravo su me stesso ammirando lo strapiombo di San Siro ed è un’immagine ricca di entusiasmo ed emozione che mi rimarrà impressa nella mente per sempre. Quando giochi, poi, non pensi tanto alla gente che c’è in giro quanto agli undici che hai di fronte: ricevetti quella palla da Pirlo e dopo averla controllata spalle alla porta con il ginocchio destro, ho abbattuto la porta con il sinistro per il momentaneo vantaggio. In quel momento il primo pensiero va alla squadra, io ero felice per il gol, il primo in Serie A, ma è grazie ai compagni se sono finito su quel tabellino e su moltissimi altri. Sono stato capocannoniere di Serie A, B e C1 e il 60% di questo merito va a chi mi ha messo nelle condizioni ottimali per realizzare così tanti gol. Un attaccante può essere bravo quanto vuoi ma serve qualcuno che gli passi la palla. Se sulla maglia non c’è scritto Messi o Maradona hai bisogno di compagni capaci di metterti nelle condizioni di segnare.

Uno di questi è l’attuale allenatore della Triestina, Carmine Gautieri, tuo compagno a Piacenza nell’anno in cui hai vinto la classifica marcatori di Serie A.

Carmine era un’ala destra velocissima e ricordo che mi ha fatto fare diversi gol. Avevo lui da una parte, a sinistra c’era Di Francesco e Paolo Poggi subito dietro. Il gioco di mister Novellino era impostato per permettermi di tirare in porta più volte possibile e quel trio mi ha fatto diventare capocannoniere di A nel 2002 con 24 gol. Era un ragazzo tranquillo, anche se abbiamo fatto diverse volte baruffa in occasione delle partitelle nord contro sud: dopo poche azioni si trasformavano in vere e proprie battaglie per cui ogni tanto partiva qualche stringata!

A proposito di Triestina, hai vestito le maglie di tantissime squadre ma mai quella dell’Unione. Perché?

Da bambino andavo tantissime volte al Grezar ma nei miei 18 anni di calcio professionistico non ho mai giocato al Rocco né c’è mai stato un contatto tra me e la società alabardata; fino a 20 anni ho militato nella Muggesana quando il settore giovanile dell’Unione si chiamava Soncini e poi il calcio mi ha tenuto sempre lontano da Trieste.

Pirlo e Hübner, con le dovute proporzioni, li rivedremo più in Serie A?

Mi rivedo molto in Belotti, nel modo di correre sia con che senza la palla ed è un ragazzo che mi piace, si impegna sempre, non protesta mai, si vede che i compagni gli vogliono bene per cui deve essere un bravo ragazzo, e mi piace molto. Un altro Pirlo? Ho sempre detto che Andrea era un secondo avanti rispetto a tutti gli altri: quando vedevo che stava per prendere la palla io già partivo perché aveva due piedi educatissimi. Stoppava e mi lanciava: era favoloso vederlo giocare, proteggere palla e servirti. Era qualcosa di impressionante. Adesso si parla tanto di Tonali, che è molto giovane e gli assomiglia nell'mpostazione di gioco anche se gli manca il lancio da 40-50 metri, pane quotidiano di Pirlo. Sicuramente perché è un ottimo ragazzo con un grandissimo margine di miglioramento.

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