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Addio a Marino Lombardo: dalla scudetto col Toro alla sua Cherso, il ricordo di un grande uomo

Nacque a Trieste da famiglia esule dall'isola di Cherso. Trionfò col Toro di Gigi Radice, tornò sul confine orientale fino a tornare nella sua isola, chiamato dall'allora sindaco e presidente della Comunità degli Italiani, Nivio Toich

“In cinque anni siamo passati dall’ultima categoria alla serie C. In squadra avevo tre poliziotti, un pescivendolo, un reduce di guerra, qualche giovane di scarse speranze e altri abbastanza capaci. Io stavo seduto in panchina e, quando serviva, gridavo qualche parola in croato, qualche altra in italiano e la maggior parte in dialetto istro-veneto”. Marino Lombardo non c'è più e con lui se ne va l'ultimo figlio dell'Adriatico orientale che nel 1976 cucì lo scudetto tricolore sul petto delle maglie del glorioso Toro. A stroncarlo, all'età di 70 anni, è stato un infarto. 

Dopo una grande carriera da terzino nella serie A degli anni Settanta, Lombardo tornò nelle vecchie province. Da allenatore - studiò al corso per allenatore a Coverciano assieme a Marcello Lippi - guidò l'Unione Sportiva Triestina alla storica promozione della fine degli anni Ottanta, quella maturata grazie alla rete del friulano Papais nel decisivo match contro la Spal. Dopo alcune alterne fortune e dopo oltre trent’anni nel calcio che conta, Marino Lombardo decide di tornare sull’isola da dove partì suo padre alla fine della Seconda guerra mondiale.

La storia della famiglia

I genitori erano entrambi originari di Cherso, visto che il nonno di Marino era arrivato qui da Chioggia, come i tanti pescatori della riva occidentale dell’Adriatico finiti nelle reti delle giovani isolane nel corso dei secoli. Lombardo nasce a Trieste perché la sua famiglia scappa dal Quarnaro. Per poco non s'incrocia con un altro esule dal cuore granata, Franco Sattolo. Si conosceranno più tardi, verso la metà degli anni Sessanta quando il giovane Lombardo viene acquistato dal Torino che lo preleva dalla Quarta serie laziale. Lì ci finisce grazie agli interessi romani di un imprenditore istriano di nome Primo Rovis. Marino riesce a mettersi in luce grazie alla rappresentativa regionale, fa le valigie e dalla caput mundi finisce nella prima capitale d’Italia: dalle terme di Roma al Po.  

Dal Piemonte alla Venezia Giulia

Marino resta a Torino per lunghi dieci anni. Condivide quella maglia con molti figli del confine orientale. Passano molto tempo assieme, vanno a cena uno a casa dell’altro, mangiano, bevono, si ubriacano, fumano sui balconi, tirano tardi quando vincono, filano a casa quando non è giornata. Quando vincono contro la Juventus allora Torino si veste di granata e si mette a sognare ad occhi aperti. “Vien casa darme una man te prego” sembra dire la mamma di Marino che, dopo aver appeso le scarpe al chiodo nei primi anni Ottanta, fa il giramondo. Torna a Trieste, poi ancora in giro per l’Italia del calcio, per poi sparare ancora qualche “cartuccia” da allenatore, in una parentesi nella vicina Slovenia da poco indipendente. Poi Marino decide di tornare sull’isola. 

L'arrivo a Cherso

“Arrivo a Cherso per star con mia madre un po’ e ci resto cinque anni. All’inizio voglio solo star in pace, godermela e staccare dopo tantissimi anni tra il pallone”. Marino è stufo del calcio, anche se quando arriva in paese tutti sanno chi è. Diventa facilmente famoso. Nivio Toich è farmacista e sindaco e presidente della comunità degli Italiani di Cherso. “Dai, prova” gli dice davanti ad un caffè seduti ai tavolini del caffè Fortis. Toich gli sta chiedendo di mettere su una squadra di calcio e di allenarla. “E dove?” sembra chiedere Marino, che si accende una sigaretta e si arriccia il baffo. “Vien, te mostro” gli risponde il farmacista chersino che è anche un po’ stregone, capace infatti di mischiare la medicina tradizionale alle piante officinali che crescono sull’isola. È arte antica quella del farmacista adriatico, che parte dalla lunga storia di ingegno del convento dei frati di Ragusa (o Dubrovnik), per arrivare fino al laboratorio dell’istriano Franco Fornasaro a Cividale del Friuli. Maestri in grado di anticipare le reazioni e di frantumare le divisioni, trasformandole in balsamo o in spezie per l’anima. 

Il campo in un parcheggio, container come spogliatoi

Quando arrivano sul posto che dovrebbe essere il campo da allenamento della neonata squadra di Cherso, Nivio è in silenzio. Marino si guarda attorno ed è perplesso. Non pretende di essere al Comunale, questo è chiaro, ma almeno una parvenza, un elemento che possa ricordare l’estetica del calcio, un pallone che rotola e tre pali a formare una porta, insomma, futbòl. “Dove, qua?” chiede a Nivio che volge lo sguardo verso i lunghi baffi. Una motocicletta di jugoslava cilindrata con a bordo due giovani entusiasti passa veloce vicino a Nivio e Marino. Dopo aver salutato il farmacista, ripartono sgommando. La nuvola di polvere svanisce dopo circa un minuto. Marino si tocca il baffo e si scrolla i pantaloncini lucidi che nel frattempo erano diventati bianchi. Non è convinto al cento per cento, però sa che non può deludere le aspettative di un amico. “Va ben, ma vojo carta bianca” è la risposta che fa sì che l’indomani Lombardo inizi a lavorare per mettere su la squadra di calcio dell’isola di Cherso. 

"Che ruolo te gioghi?"

Il campo non c’è perché è un posteggio per le macchine. Alcuni container fatti arrivare dal porto di Fiume o da qualche camion senza il controllo satellitare, diventano gli spogliatoi. Bisogna arare l’area, farla diventare un vero rettangolo. Il verde arriva (come sempre) dall’Olanda e Marino sfrutta alcune conoscenze in suo pugno per far giungere delle zolle proprio dai vivai fiamminghi. Poi arrivano i giocatori. In fila, uno dietro l’altro, l’allenatore sogna di fargli fare un vero e proprio provino. Quanti palleggi riesci a fare? Dove hai giocato? Che ruolo ti piace giocare, domande del genere insomma, giusto per sondare il terreno. Poi capisce che non si può fare, che l’unica soluzione è quella di prenderla per come viene, senza pretendere alcunché da nessuno. “Ti son maestro, vero?” gli chiese una volta uno dei più intelligenti. “Allenador” era solito rispondere Marino. “Ah, ok, maestro”. “No, allenador”. “Sì, sì, bon, maestro dai”.

La "clapa" chersina: dall'ultima categoria alla serie C

Marino si diverte come un ragazzino. Gli sembra di esser tornato ai tempi della Primavera del Torino, quando vinse lo scudetto. Con quella “clapa” vincono in casa e iniziano a viaggiare. Quella squadra viene iscritta ai campionati e, come in ogni competizione che si rispetti, le trasferte sono incluse. Ma se sei la squadra di un’isola e devi andare a giocare contro la squadra di un’altra isola, allora i viaggi non si fanno in pullman o in macchina: quando si gioca a calcio in Adriatico, le trasferte si fanno in traghetto. Marino li guarda da lontano, e ogni tanto si emoziona. Ha un gruppo di disperati, ma fanno quello che possono e lo fanno con spirito puro. La maggior parte di loro non conosce le cattiverie, i trucchi e le gomitate ai fianchi a gioco fermo. Se il gioco si fa duro allora intervengono un poliziotto e il reduce di guerra: sul confine, dell’ordine e della memoria è meglio aver rispetto. Quella squadra diventa la seconda casa di Marino. Quel maestro campione d’Italia li porta fino alla serie C croata. Il parcheggio è diventato finalmente ex e Nivio ogni tanto lo va a trovare. “Come xe, maestro?” gli grida da lontano e Marino, tentato da quella irrefrenabile voglia di correggerlo, allarga le braccia e fraternamente risponde che più di così non si può fare. Addio Marino, storia del calcio dell'Adriatico orientale. 

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