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Lunedì, 29 Aprile 2024
L'editoriale / Altopiano Carsico

Il Carso è morto, viva il Carso: la lezione morale del grande fuoco

Pensavamo di essere immuni e che la Terra dei fuochi fosse prerogativa del Mezzogiorno, eppure sono bastate 72 ore di fiamme a temperature micidiali per farci conoscere il panico e a farci ripiombare in una condizione di assoluta vulnerabilità. Cosa ci lascia e cosa ci insegna tutto ciò?

DA QUALCHE PARTE NEL CARSO - Pensavamo di essere immuni e che la Terra dei fuochi fosse prerogativa del Mezzogiorno, eppure sono bastate 72 ore di fiamme a temperature micidiali per farci conoscere il panico e a farci ripiombare in una condizione di assoluta vulnerabilità. I giorni successivi al grande rogo, in Carso c'è ancora puzza di bruciato. La boscaglia, cresciuta in maniera incontrollata, è stata rasa al suolo praticamente in ogni dove. Ogni tanto, qua è là, spunta un pezzo di artiglieria della Prima guerra mondiale, sopravvissuto al disastro. Ogni tanto, una bomba viene innescata ed esplode, ricordandoci chi siamo e da dove veniamo. 

Cittadini ad intermittenza

Siamo un popolo di frontiera che ha smesso di occuparsi del Carso da tempo. Siamo cittadini "ad intermittenza", come dice don Ciotti. Giudichiamo gli altri, stando comodamente al sicuro dentro alle osmize, o nei caffè. Ascoltiamo la televisione estiva pensando che sì, gli incendi a luglio "è roba che non ci tocca, qui da noi le cose si fanno meglio che da altre parti". Eccola là, la lista interminabile di errate convinzioni. Nell'assistere impotenti ai roghi che hanno trasformato migliaia di ettari di Carso in una distesa bianconera di cenere, dobbiamo trovare tempo e spazio per interrogarci. 

L'eredità invisibile

Cosa ci lascia in eredità questo grave fatto di cronaca? Siamo in grado di analizzarlo a fondo e a far sì che tutto questo serva davvero a migliorarci come società civile? Forse dovremmo interrogarci su quanto davvero viviamo il Carso, o forse dovremmo semplicemente smetterla di pensarci oasi felice per quasi tutto. Perché arriviamo sempre a cose fatte? Perché non abbiamo più la capacità di anticipare le mosse? Cosa ci impedisce di progettare il futuro in maniera più lungimirante? Cosa è stato fatto dal punto di vista della prevenzione, qui? Quanti sono i giornalisti (a cui gli uffici di promozione turistica regionale hanno offerto i tour enogastronomici), ad essersi preoccupati delle criticità ambientali di questa terra? A queste domande c'è una risposta, che potrà non piacere.

Siamo morti anche noi

Il Carso lo viviamo ormai solo perché ci piace arrivare comodi con la macchina in agriturismo e a nessuno - o quasi - interessa più prendersene cura, camminarci sopra, accarezzarne le prerogative. Come dice lo scrittore e poeta triestino Luigi Nacci, non ci sono più linee tagliafuoco, i sentieri sono sempre meno curati, nessuno pascola più. Diamo pochi soldi - sempre meno - al Cai che dovrebbe occuparsi delle tracce. I volontari sono sempre più anziani. All'umana logica i giovani preferiscono la logistica. Ma ci sarà qualcuno, vien da pensare, a cui 'sto benedetto Carso interessa veramente? Più di cent'anni fa i Savoia mandarono a morire oltre 200 mila soldati, su questo altopiano. Altrettante, dall'altro lato, le vittime austroungariche. Se mai dovessero individuare il dolo e scovare dei piromani, ecco che la nostra coscienza verrebbe pulita, assolvendoci in una grande indulgenza collettiva. 

Ma la realtà è che oggi, tra la totale indifferenza e l'abbandono, tra quel sentirsi immuni e l'ipocrisia dell'era digitale, siamo morti anche noi. 

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