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Insegnante transgender rifiuta incarico a Trieste e lascia la città: "Troppa omofobia"

“Insulti per strada, risate continue, mi sono convinto di meritare tutto questo”. Il professor Greco si è rivolto a Trieste Prima “non per un attacco alla città, di cui mi sono innamorato dal primo istante”, ma per portare alla luce “una situazione che riguarda tutto il paese”.

TRIESTE - Un insegnante transgender rifiuta un incarico annuale in una scuola superiore di Trieste e lascia la città a causa di “continui episodi di omofobia”. Il 32enne professor Greco, che oggi si chiama Sole Greco, ha insegnato nel capoluogo giuliano per quattro anni, e ora decide di tornare in Puglia, sua regione d’origine, per intraprendere il suo percorso d’identità. Sole si è rivolto a Trieste Prima “non per un attacco alla città, di cui mi sono innamorato dal primo istante e in cui ho conosciuto persone meravigliose”, ma per portare alla luce “una situazione che riguarda tutto il paese”. Nell’intervista, Sole racconta i motivi che lo hanno portato a lasciare la città e testimonia forme di intolleranza che spesso, e a torto, crediamo appartenere ad altri tempi e luoghi.

Quando sono iniziati questi episodi? 

"Non subito, nel momento in cui da omosessuale sono passato ad essere un transgender, per adesso non binary (persona che non riconosce di appartenere al genere maschile né a quello femminile, ndr), ho iniziato ad esprimere la mia femminilità, e questa esigenza, che può essere o meno una fase di vita, l’ho pagata cara". 

In che modo?

"Insulti da sconosciuti e non, e soprattutto risate ovunque, che erano una colonna sonora, una musica fastidiosa che mi accompagnava ovunque. Un vicino di casa mi insultava ogni volta che lo incontravo, anche davanti a tutti, quando mi vedeva al supermercato o per strada. Un signore che incontravo sempre alla fermata del bus, ogni volta che mi vedeva bestemmiava e prendeva a calci il palo della luce, maledicendo la mia categoria. Una volta, alle 14 del pomeriggio in via Crispi, un gruppo di ragazzi mi ha bloccato mentre cercavo di attraversare la strada. Sono riuscito a passare e hanno iniziato ad insultarmi mentre me ne andavo. Un altro ragazzo, che sembrava sotto l’effetto di droghe e parlava una lingua che non capivo, mi ha urlato contro dall’altro lato della strada. Con lo sguardo sembrava dirmi, se mi guardi ancora ti ammazzo". 

Succedeva anche a scuola?

“Quasi mai, la scuola e gli alunni sono stati la mia salvezza. Da parte dei ragazzi ci sono stati pochi episodi ma a quell’età non è altro che un gioco di ruolo. Poi, non appena entravo in classe per la prima lezione mi amavano e diventavo il loro ‘prof’ preferito. Episodi spiacevoli sono successi con alcuni colleghi maschi, parlavano alle mie spalle e, in mia assenza, distruggevano il lavoro che facevo in classe. Mentre io insegnavo la libertà, loro incitavano i miei alunni più effeminati a una mascolinità tossica. Purtroppo gli insegnanti ignorano queste tematiche, in questo paese manca una formazione adeguata”.

Come ti sentivi?

"All’inizio credevo di avere le allucinazioni, sono arrivato a pensare di essere pazzo, mi ripetevo che forse stavo ingigantendo io il problema. Poi un giorno, facendo una passeggiata con due colleghi, loro hanno notato che le persone mi guardavano e ridevano, in continuazione. I miei colleghi, scioccati, mi hanno chiesto come facevo a vivere in questo modo e una di loro mi ha detto 'io finirei in psichiatria dopo due giorni'. Allora mi sono reso conto che quelle risate per me erano la normalità. La violenza più grande che ho subito, e per questo ho lasciato la città, è il fatto di essermi convinto che meritavo quelle occhiate. Ancora adesso sto lavorando su me stesso per capire che non merito tutto questo”. 

Che differenze hai notato a Trieste rispetto ad altre città?

"A volte capita di sentirsi ridere dietro, poi se si guardano le persone in faccia queste abbassano lo sguardo. Quello che ho notato qui rispetto ad altre città è che la provocazione era spesso un affronto, la gente aspettava la mia reazione e quando li guardavo, come a dimostrare che non avevo paura, rischiavo lo scontro fisico. Purtroppo l’LGBT è visto come un indifeso che deve rimanere zitto e tenersi gli insulti. Il mio non è un attacco alla città, l’omotransfobia è presente in tutta Italia (al momento salvo solo Bologna) io ho viaggiato tanto per questo problema, ogni weekend prendevo un treno e scappavo. Forse continuerò a pagare questo mio cambiamento ovunque ma adesso mi sento meno solo”.

Com’è la tua vita adesso? 

“Avere vicino la famiglia e gli amici di una vita aiuta molto, inoltre a Lecce c’è una realtà queer molto attiva e forte, rimarrò qui un anno e insegnerò in una scuola privata. Sto affrontando un percorso di identità e per il momento continuo a usare il pronome maschile perché non voglio forzare le tappe”.

Cosa significa essere transgender oggi?

“La persona transgender ha bisogno di essere vista e riconosciuta perché il disagio di tutte le forme del transgenderismo, dai non binary fino ai transessuali, è che spesso siamo ripudiati e negati. Questo accade perché una bellezza androgina confonde le idee e distrugge gli schemi. Sradicare gli schemi richiede sacrificio, comprensione e nuova analisi, la gente non è disposta a farlo. Il nostro non è un capriccio, il mio è un bisogno di far capire che non faccio parte di una categoria in cui gli altri vogliono inserirmi. Un look neutro non è un costume di carnevale, noi vogliamo solo essere riconosciuti mentre la società etichetta come 'fuori di testa' ciò che non può collocare, lo fa sentire scomodo e inesistente. Il make up non è un ornamento, io quando metto il mascara guardo il mondo con occhi diversi. La moda non è un capriccio, è rivoluzione, perché può portare al riconoscimento di tutti”.

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