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“La giustizia non può essere messa in quarantena” gli avvocati penalisti proclamano lo stato di agitazione

"Il sistema Giustizia è in totale paralisi: il 9 marzo si sono spenti i motori e la macchina non sembra voler ripartire" così la segnalazione

Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di TriestePrima

Lo stato di emergenza sanitaria ha causato uno stravolgimento, decisamente inimmaginabile, nelle vite di ciascuno. Distanziamento sociale, limitazioni alla libera circolazione, accesso contingentato nei negozi: nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario simile. Mentre il sistema sanitario lotta dal primo minuto freneticamente contro un nemico invisibile, il sistema Giustizia è in totale paralisi: il 9 marzo si sono spenti i motori e la macchina non sembra voler ripartire. La forsennata ricerca di misure idonee a sconfiggere il virus sta obnubilando la mente del legislatore in materia di Giustizia: se i primi interventi erano finalizzati al blocco totale delle attività giurisdizionali (fatta ovviamente eccezioni per le questioni indifferibili), ora l’unico maniacale tarlo è quello della completa smaterializzazione del processo penale.

Nessuno potrà più accedere ad un palazzo di giustizia, i processi si faranno sulle piattaforme da remoto, comodamente collegati chi da casa, chi dallo studio, chi da una caserma dei Carabinieri; insomma il diritto ad un giusto processo dipenderà unicamente dall’efficienza della fibra ottica, dalla bontà del collegamento virtuale, dalla capacità delle parti di maneggiare lo strumento informatico, nonché della capacità del sistema di garantire la protezione dei dati, con conseguente annientamento di tutti i principi cardine del nostro ordinamento: il principio di pubblicità dell’udienza, perché la giustizia è amministrata nel nome del popolo italiano; il principio di oralità, intesa anche come diritto di partecipazione concreta e diretta, fisica ed emotiva; il principio del contraddittorio pieno ed effettivo tra accusa e difesa; il principio del libero convincimento del Giudice, che ha assunto de visu le prove fornite dalle parti; il principio di assoluta segretezza della camera di consiglio, ove il Giudicante si ritira per la decisione.

Tutto ciò non esisterà più: il rischio è quello che non si tratti di normazione emergenziale, ma che il processo da remoto diventi la regola. Perché? Perché è la soluzione più facile. E ciò non lo possiamo assolutamente accettare: non possiamo accettare né tollerare che la sacralità del processo penale venga sacrificata in nome di una emergenza che lo Stato non è in grado di affrontare. Eppure le alternative ci sono e sono anni che i penalisti ne chiedono l’attuazione: la completa digitalizzazione dei servizi di cancelleria, dei depositi e delle notifiche da parte dei legali; la smaterializzazione dei fascicoli dell’accusa (e non dei processi!); la celebrazione di udienze rigorosamente scaglionate in orari diversi, al fine di evitare inutili assembramenti ed inutili attese. L’emergenza sanitaria in atto, pur nella sua estrema tragicità, ben avrebbe potuto rappresentare un nuovo punto di ri-partenza verso lo snellimento della burocrazia giudiziaria. Al contrario, tutto è paralizzato, fermo in un limbo impalpabile; come paralizzati, ormai da anni, sono pure i pagamenti che lo Stato deve effettuare a favore degli avvocati che hanno difeso cittadini ammessi al patrocinio a spese dello Stato, quasi a volersi rimarcare la distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B. La Giustizia non può e non deve essere messa in quarantena: “senza giustizia non c’è democrazia”.

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